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Martedì, 17 Luglio 2012 15:14

Dalle macerie di una Torino che non c'è più

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torino
La gente va dove c'è il lavoro. Inutile illudersi che una città si popoli per la sua bellezza, per la simpatia degli abitanti, per i monumenti antichi o per la ricca offerta culturale che vi si può reperire. Se così fosse, Venezia o Firenze avrebbero 10 milioni di abitanti. L'area metropolitana di Torino è sempre cresciuta, tumultuosamente sino agli anni settanta, poco, negli ultimi lustri. Però è arrivata a contare quasi due milioni di abitanti che, se non cambierà qualcosa, dovranno per forza ridursi prima o poi. Quando una società è ricca, ci si interroga se sia meglio vivere in un posto piuttosto che in un altro. L'opulenza rende annoiati, pretenziosi, arroganti. "Ma vuoi mettere Parigi? Ma ti pare che possiamo paragonarci a Londra?", si diceva negli anni ottanta, pure nei novanta, senza pensare troppo al fatto che i soldini per pagare l'aereo e l'albergo erano stati guadagnati in riva al Po.

 

Ora Torino è molto più vivibile rispetto alla città fabbrica che era diventata dopo decenni di dominio incontrastato Fiat. Il contrappasso rispetto all'apertura di tanti locali, alla ripulita dei palazzi, alla pedonalizzazione di vie e piazze, al recupero del Lungopò e del centro storico, è che a Torino c'è sempre meno lavoro. La nostra metropoli, bellissima ma misconosciuta, ricca ma masochista, capace ma modesta, aperta agli altri ma intrattabile soggettivamente, non ce la fa proprio a tirar fuori la testa. Ad avere tanto lavoro per tanta gente, tanta offerta di tempo libero, tanti trasporti pubblici efficienti, tanta sanità all'avanguardia. Manca sempre un pezzo per la normalità totale.

 

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Negli ultimi anni il "ma" di Torino è diventato il lavoro. Insieme alla crisi economica che ha colpito tutta l'Europa meridionale, c'è stato l'abbandono fisico da parte di Fiat della città. La Fabbrica Italiana Automobili Torino non produce più qui. Non fornisce più occupazione in modo consistente. Non crea più ricchezza sul territorio. Mantiene i capisaldi del suo potere, certo un po' annacquato, con il suo giornale, con i suoi uomini nei posti chiave delle decisioni cittadine, attraverso i rapporti forti e costanti con chi – eletto dai cittadini – dovrebbe governare Torino e il Piemonte a vantaggio dei propri elettori e non della grande industria che se ne sta andando. Con le difficoltà che si vivono tutti i giorni viene da chiedersi se non fosse meglio la città grigia, chiusa la sera e la notte, la Torino scorbutica e difficile dove però tutti avevano un lavoro, una casa, dove la società era piena di certezze e povera di colpi di testa.

 

Oggi la crisi tocca tutti o quasi: per i giovani trovare un lavoro, anche a tempo determinato, è diventata un'impresa da record. Per chi è stato espulso dal ciclo produttivo oltre i 50 c'è il problema di arrivare alla pensione in qualche modo. Per chi continua a provare a darsi da fare le difficoltà sono enormi. Ma non possiamo lasciarci andare alla retorica del rimpianto. Il "Si stava meglio quando si stava peggio" non ci può andare giù. Torino ha sempre trovato in sé le risorse per rinascere e ricrescere: anche questa volta lo può fare e la liberazione dal giogo (politico, economico, culturale) della grande industria va accelerata, non vista come un pericolo. Da lì, finalmente liberi, potremo provare ancora una volta a risorgere.

Giovanni Monaco

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