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Lunedì, 30 Aprile 2012 17:37

Agli immigrati diamo del lei In evidenza

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Chissà perché, da qualche anno, tutti ci danno del tu. Perfetti sconosciuti, magari al nostro ingresso in un negozio o in un locale, ci accolgono con distratti “ciao”, quasi fossimo vecchi amici. La cosa, per chi come lo scrivente ha superato gli anta, provoca un brividino di contrarietà, misto a un’inconfessabile soddisfazione: vuoi vedere che me li porto ancora bene? Non è così. Ormai, entrasse al Soho o all’Obelix il cardinale in persona, vestito d’abito corale rosso porpora, verrebbe apostrofato con un routinario “Ciao caro, che ti bevi?”.
È che manco ti guardano in faccia.

Invece ci sembra normale e scontato che qualsiasi immigrato (comunitario o extracomunitario) purché malvestito e in evidente stato di povertà, ci dia del tu. Lo accetteremmo meno facilmente se la persona in questione vestisse giacca e cravatta, portando una ventiquattrore alla destra, qualsivoglia sia la tonalità cromatica della sua pelle. Invece si vedono anziani signori “tuteggiare” quotidianamente e senza imbarazzo alcuno, con giovani venditori di rose e con idraulici rumeni. Ciao ciao. Ciao caro.
Eppure una spiegazione c’è: siamo stati noi i primi a dar loro del tu, a dimenticarci delle buone maniere. Perché tenere un po’ le distanze, fa capire che manca familiarità, ma non deferenza. Rispettare le regole della convivenza civile sedimentatesi in secoli di relazioni umane, è un valore irrinunciabile. Va da sé che il “tu” ai primi immigrati non fosse un segno di vicinanza e di fraternità; era soltanto la prova di una scarsa considerazione nei confronti dei medesimi. A un ragazzino mica do de lei.
Loro, con naturalezza, rispondevano e rispondono allo stesso modo. “Ciao, tu”. Alcuni hanno pure l’insopportabile inclinazione a chiamarti “fratello”. Per cui oggi quella che può apparire a prima vista una salda comunità di amiconi e amichetti, tutti intenti a darsi del “caro” e del “tu” - persino del “te” usato come soggetto nei casi grammaticalmente più disperati - altro non è che un’accozzaglia di gente diversa e per nulla integrata, che si rispetta poco a vicenda. Mantenere riguardosa distanza tra una persona e l’altra è anche e soprattutto indice di rispetto. Non invadere immediatamente l’altrui sfera d’azione, affiancando e aggredendo con falsa intimità chi non si conosce, è attenzione verso gli altri e verso se stessi.
Fate la prova: entrate da un kebabbaro e rivolgetevi a lui con un formale “lei”, magari senza indulgere in quell’atteggiamento da ex compagni di scuola che invariabilmente l’italiano medio assume in presenza di uno che l’ex premier giudicherebbe molto abbronzato. Vedrete che anche il suo atteggiamento nei vostri confronti cambierà e mostrerà un minimo di rispetto, persino per un italiano. L’integrazione è una dura conquista, difficile dire quando si completerà il processo. Ma se proveremo tutti a trattarci a vicenda nel modo che tanta esperienza pregressa, dei nostri padri, dei nonni, dei bisnonni e via risalendo, ha secolarmente codificato, non guasterà.

Ultima modifica il Sabato, 26 Maggio 2012 20:18
Giovanni Monaco

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