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Debutta stasera al Carignano La scuola delle mogli di Molièere con Valter Malosti interprete e regista Stampa
Scritto da Mara Martellotta   
Martedì 30 Novembre 2010 09:28

Debutta questa sera al Teatro Carignano e sarà in scena fino al 5 dicembre, La Scuola delle mogli, capolavoro teatrale di Molière, nella

 

versione italiana,Valter Malosti, da lui interpretato nei ruoli di Arnolphe, alias Signore del Ceppo). Lo affiancheranno Mariano Pirrello (Chrysalde, Alain),  Valentina Virado (Georgette, una vecchia, le massime), Giulia Cotugno (Agnès), Marco Imparato notaio(Horace), Fausto Caroli (Enrique) e Gianluca Gambino (Oronte, un). Il suono è di Gup Alcaro, i costumi sono di Federica Genovesi, le scene di Carmelo Giammello.

Valter Malosti - dopo un recente premio Ubu per la regia dello spettacolo Quattro atti profani di Antonio Tarantino - ripropone per la stagione 2010/2011 Molière. In La scuola delle mogli, Arnolphe, inventatosi “Signore del Ceppo”, è un ricco “originale”, feroce sbeffeggiatore delle disgrazie coniugali, pensatore sui generis, ossessionato dall’idea di costruirsi una moglie perfetta, una sorta di bambola innocente, schiava e ottusa, che lo risparmi dalle corna. Arnolphe sta per sposare la giovanissima Agnès, una trovatella che egli stesso ha cresciuto ed educato, con la complicità delle suore di un convento, nella più totale ignoranza. Ma la Natura sceglie percorsi imprevedibili e Agnès muterà in

maniera travolgente il suo destino e quello di Arnolphe.

«L’École des femmes - scrive Cesare Garboli - andò in scena al Palais Royal il 26 dicembre 1662 (Molière, poco più che quarantenne, si era tra l’altro sposato da pochi mesi con la giovanissima Armande Bejart). Ebbe un successo immenso. Non ci fu una strada, una piazza, una fiera, un salotto dove occasione di chiacchiera giornaliera non fosse un verso zoppicante, una scena indecente, una battuta… dell’École des femmes.

Con La scuola delle mogli, Molière svegliò la coscienza intellettuale di un pubblico di bottegai affezionato alle farse e mise in allarme un sistema costituito d’idee. Per due anni, tutta la Parigi aristocratica e borghese, non solo quella dei bottegai ma anche quella spregiudicata del femminismo prezioso e dei letterati alla moda, partecipò allinciaggio di un attore che stava dalla parte del pubblico, lo compiaceva, lo lusingava, e

nello stesso tempo lo mobilitava contro di sé. Dame saccenti, preti virtuosi, attori in declino, giornalisti in vena di emergere furono i grandi registi di quella mai vista “passione” teatrale. Dentro e fuori la scena, sembrava che Molière recitasse tutte le parti… in tutta la storia del teatro moderno non esiste documento di più lucida ed oscura provocazione... come in una cellula dal grande sviluppo futuro, si celano ne La scuola

delle mogli i germi del tema molieriano che la vita è malattia».

«La scuola delle mogli - scrive Valter Malosti - ruota attorno a un’idea fissa: le corna. È il tema che attraversa tutta l’opera di Molière fino alla crudeltà derisoria del GeorgesDandin. È una coazione comica alla catastrofe ma anche un’ossessione che diventafobia vitale e cuore della commedia. È un testo che ha ricevuto un’attenzione distratta in Italia, perché la tragedia, annidata nella struttura di geniale farsa, complica

maledettamente i piani di chi deve ricrearlo. Un altro tema che mi pare fondamentale è il rapporto malato di vittima-carnefice che suona sordo, come un inquietante basso continuo, in sottofondo a tutta la composizione degli scoppiettanti dialoghi tra Agnès e Arnolphe, che si aprono a squarci inaspettati di cruda verità.

Colgo nella pièce un carattere visionario: il delirio in cui sprofonda Arnolphe al termine della commedia si trasforma in una vera e propria anatomia della rovina; rovina di cui è egli stesso l’artefice, come l’Alceste del Misantropo. Stabilito il fatto che La scuola delle mogli non è una semplice farsa sostengo che la farsa naturalmente debba conservarsi.

Se non si fa ridere con questo testo si fallisce, e penso alla grande lezione delle farse alte e allucinate di Leo De Berardinis e del suo alter ego: il Leòn de Berardin di Scaramouche. Immagino uno spazio circolare, una sorta di isola che, riaffiorata, ha portato alla luce le rovine di un palazzo o di una piazza, dominata da un grande ceppo e dalle sue radici inaridite. Sullo sfondo si staglia un grande armadio rosso, scatola

magica, casa e prigione. Attraverso un processo di ri-creazione del testo, seguendo anzitutto un intuito musicale e guidato nella traduzione da un gesto linguistico che deve poi farsi teatro, ho costruito una partitura che passando per il melodramma verdiano arriva alla canzone, all’hip hop, e ho trovato una misura espressiva in versi liberi, giocando con la lingua attraverso rime, assonanze e ritorni di suono, ma con una grande

economia di sillabe; a volte screziandola con un francese maccheronico, eco della lingua artificiale dei comici italiani che dominavano i palcoscenici parigini del Seicento"-

 
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