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La favola di Torino

C'era una volta una città il cui Re doveva essere eletto e non nominato esplicitamente per scelta divina. Quella scelta era già stata fatta anni e anni prima dalle famiglie potenti della sperduta metropoli, famiglie che avevano elaborato un piano per continuare a fare i propri comodi senza dover rendere conto a nessuno. Quei ricchi signori, con case in collina e all’isola pedonale di un quartiere chiamato Crocetta, dopo essere state messe in difficoltà da organizzazioni dei lavoratori dette sindacati e da partiti che prendevano voti sostenendo di proteggere i poveri, gli operai e i lavoratori in genere, pensarono che fosse più conveniente allearsi con chi prima ne aeditoriale_hpveva scalfito il potere. “Facciamoceli amici, vogliamo la pace, non la guerra”, disse il più importante decano della più potente famiglia ai suoi confratelli di portafoglio. Non più nemici, ma amici, per assicurare un futuro radioso sia alle loro stirpi, sia a quelle dei comandanti di sindacati e partiti.
Così iniziarono a finanziare proprio i loro ex nemici, pagando ai capi dei sindacati e dei partiti i costi della loro attività. Lo fecero rispettando la legge, che glielo consentiva. Attraverso importanti giornali, le grandi famiglie si dissero favorevoli alle lotte operaie e alle giuste rivendicazioni che talvolta venivano rivolte persino contro loro stesse. A un certo punto, quelle rivendicazioni si diradarono, sin quasi a sparire del tutto, perché ormai erano tutti amici, facevano bisboccia insieme, andavano la domenica a vedere ventidue ragazzi che correvano intorno a un pallone su un prato verde ed esultavano abbracciandosi ad ogni rete segnata, disperandosi insieme quando invece la rete veniva subita. Come si poteva più litigare a quel punto? Soltanto perché magari una famiglia decideva che non fosse più conveniente tenere una fabbrica nella città? Non sarebbe stato educato. Del resto le fabbriche e quindi il lavoro venivano distribuiti altrove, altra gente avrebbe avuto uno stipendio, sarebbe stato ingiusto manifestare troppo egoismo. Tutti, sia i ricchi e potenti, sia i capi dei sindacati e dei partiti dei lavoratori, sapevano che c’era un sentimento generale della città, quello che i dottori e gli studiosi chiamavano “opinione pubblica”. Con grande perizia e soltanto con un minimo ausilio di stregoni e fate venute dall’Est, crearono un diffuso sentimento di simpatia, sia nei confronti dei potentissimi-ricchissimi, sia a vantaggio del partito dei lavoratori.
Chi stava in mezzo alla tenaglia, invece, veniva denigrato, sbeffeggiato e trattato come un reietto dalla società. I commercianti, i professionisti, gli artigiani e tanti altri erano presentati alla cosiddetta opinione pubblica come persone che rifuggivano il pagamento delle gabelle (li chiamavano evasori) visto che s’arrabattavano per non chiudere bottega, mentre le potenti famiglie avevano enormi conti bancari in ducati del centroeuropa o in isole caraibiche conosciuti come “paradisi fiscali”. La città, del resto, viveva credendosi felice. I giornali spiegavano che era diventata la più bella conurbazione del globo terracqueo e che persino i Re di Parigi e di Bruxelles, nel visitarla, rimanevano nientemeno che “stregati”. I problemi si minimizzavano, le virtù s’esaltavano. A un certo punto si tornò a parlare dell’elezione del nuovo Re e le potenti famiglie, quasi un po’ annoiate, continuarono nel loro operato: lo aiutarono, portandolo alla votazione finale con grande vantaggio. Il rischio non erano certo i candidati degli altri partiti, perlopiù considerati inetti e inoffensivi, ma la confusione che avrebbe potuto creare il partito operaio, se non fosse stato al potere e non avesse gestito insieme alle famiglie la città. E così, altri cinque anni di pace e di business vennero assicurati.
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