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Alla Cavallerizza Paolo Graziosi interprete di Beckett

Rimarrà in scena alla Cavallerizza Reale, nell’ambito della stagione 2011/2012 della Fondazione del Teatro Stabile di Torino, fino al 22 gennaio la pièce teatrale Primo amore di Samuel Beckett, nella traduzione di Franco Quadri, diretto e interpretato da Paolo Graziosi, assistente alla regia Elisabetta Arosio. Lo spettacolo è prodotto da ErreTiTeatro30.

 Quando nel 1945 Samuel Beckett scrive il racconto Primo amore vive in Francia da  diverso tempo, ma è ancora lontano dal successo di Aspettando Godot. Un uomo, una  specie di allampanato barbone con bombetta, scarpe da tennis, ombrello e bottiglia al  fianco, racconta le sue emozioni, il suo vagabondare e l’incontro con una donna.  

Ma il primo amore è una relazione con una prostituta, simbolo in fondo dell’impossibilità di possesso. E a casa della donna il protagonista si installa con la precarietà e soprattutto con l’atteggiamento dell’ospite temporaneo. Il fiume di parole che rovescia in  scena è lo specchio di una storia di disadattamento estremo. 

Paolo Graziosi dà vita allo sradicato personaggio beckettiano, commentandolo così:  «La maniacalità e l’accanimento con cui insegue i particolari dei suoi ricordi fa parte del quadro clinico di questo disturbato speciale, autoemarginato da un mondo che gli fa  orrore probabilmente proprio per approssimazione e promiscuità e nel quale si rifiuta di crescere, per chiudersi in un altro fatto di perfezionismo ossessivo e vuoto (asettico).  Col risultato di restituirci una sorta di clown puerile che abita questo vuoto con una  caparbietà logorroica dai rimbalzi d’allegria quasi infantile e una carica d’ironia  virtuosistica dalle quali, se lo spettatore-ascoltatore si lascia catturare, può trarre addirittura degli effetti terapeutici di sicuro effetto». 
Come un semplice rumore, lo stridìo della sedia girevole su cui si volta verso il pubblico, s'annuncia il personaggio protagonista: un classico barbone, abito sbrindellato e bottiglia di vino al seguito. E lo risentiremo, quello stridìo, anche quando, alla fine, il barbone tacerà, tornando a mostrarci le spalle. Si tratta di sottolineare che le sue parole si negano a qualsiasi colloquialità, sono ridotte, appunto, a uno dei tanti e indistinti rumori dell'esistenza quotidiana.
   Parliamo di «Primo amore», la trasposizione drammaturgica dell'omonima e breve novella scritta da Beckett nel '45. Debuttò nove anni fa proprio a Napoli, alla Galleria Toledo, e adesso si replica nel Ridotto del Mercadante, sul finire di una stagione che il direttore dello Stabile, Andrea De Rosa, ha voluto dedicare, come sappiamo, giusto a Beckett oltre che a Shakespeare: con una scelta, ripeto, fondata e stimolante, anche se gravata in qualche caso dalla ripetizione degli stessi titoli e dal già visto.
   Stavolta, però, la ripetizione e il già visto sono benvenuti. E basterebbe l'invenzione di cui all'inizio a dimostrare la qualità conferita allo spettacolo dalla regia di Paolo Graziosi. Ricordo, in proposito, che Beckett scrisse «Primo amore» direttamente in francese, perché, affermò, «in francese è più facile scrivere senza stile»; e ricordo anche un passo, decisivo, del saggio beckettiano su Proust apparso nel '31: «Se l'amore è una funzione della tristezza dell'uomo, l'amicizia è una funzione della sua codardia; e, se nessuna delle due cose può esser realizzata a causa dell'impenetrabilità (isolamento) di ogni "cosa mentale", il fallimento di ogni tentativo di possesso può avere almeno la nobiltà di ciò che è tragico, mentre il tentativo di comunicare, laddove nessuna comunicazione è possibile, è soltanto una volgarità scimmiesca, o qualcosa di orrendamente comico, come la follia che fa parlare con i mobili».
   Infatti, la novella in questione costituisce la più compiuta applicazione di quei postulati. Tanto per cominciare, il «primo amore» di cui si narra consiste in un'occasionale relazione con una prostituta, la quale, per essere di tutti, è il simbolo stesso, appunto, dell'impossibilità del possesso. E, poi, va considerato che il personaggio monologante può chiamare la donna con la quale convive alternativamente Lulù, come la selvaggia eroina di Wedekind, e Anna, come una grigia casalinga qualunque. Il sublime e l'ordinario di per sé non significano più nulla, sono esattamente la stessa cosa.
   Eccellente, infine, anche il Graziosi attore. Il suo tono da «basso continuo» rende come meglio non si potrebbe l'inconfondibile conclusione di Beckett: «... che importa come si svolgono le cose, visto che si svolgono?».

                       

Come un semplice rumore, lo stridìo della sedia girevole su cui si volta verso il pubblico annuncia il personaggio protagonista: un classico barbone, abito sbrindellato e bottiglia di vino al seguito. E quello stridìo si sentirà anche quando, alla fine, il barbone tacerà, tornando a mostrarci le spalle. Si tratta di sottolineare che le sue parole si negano a qualsiasi colloquialità, sono ridotte, appunto, a uno dei tanti e indistinti rumori dell'esistenza quotidiana.
“Primo amore” è la trasposizione drammaturgica dell'omonima e breve novella scritta da Beckett nel '45. Debuttò nove anni fa a Napoli, alla Galleria Toledo. Beckett scrisse “Primo amore” direttamente in francese, affermando, «in francese è più facile scrivere senza stile»; si può anche citare un passo decisivo del saggio beckettiano su Proust, apparso nel '31, in cui il drammaturgo: “Se l'amore è una funzione della tristezza dell'uomo, l'amicizia è una funzione della sua codardia; e, se nessuna delle due cose può esser realizzata a causa dell'impenetrabilità (isolamento) di ogni "cosa mentale", il fallimento di ogni tentativo di possesso può avere almeno la nobiltà di ciò che è tragico, mentre il tentativo di comunicare, laddove nessuna comunicazione è possibile, è soltanto una volgarità scimmiesca, o qualcosa di orrendamente comico, come la follia che fa parlare con i mobili”.
 Infatti, la novella in questione costituisce la più compiuta applicazione di quei postulati. Tanto per cominciare, il «primo amore» di cui si narra consiste in un'occasionale relazione con una prostituta, la quale, per essere di tutti, è il simbolo stesso, appunto, dell'impossibilità del possesso. E, poi, va considerato che il personaggio monologante può chiamare la donna con la quale convive alternativamente Lulù, come la selvaggia eroina di Wedekind, e Anna, come una grigia casalinga qualunque. Il sublime e l'ordinario di per sé non significano più nulla, sono esattamente la stessa cosa.
Eccellente, infine, anche il Graziosi attore. Il suo tono da “basso continuo” rende come meglio non si potrebbe l'inconfondibile conclusione di Beckett: “... che importa come si svolgono le cose, visto che si svolgono?”.

                       


 

Per informazioni telefono 011/5176246 

Biglietti: Intero euro 25,00 

Recite: martedì e giovedì, ore 19.30; mercoledì, venerdì e sabato ore 20.45; domenica ore 15.30; lunedì riposo.

 

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